Bologna e il mito di Atlantide. Leggenda di Aposa
Aposa e il mito di Atlantide
Analisi di un racconto
Tratto da F. Berti
Le vie delle fiabe.
L’informazione è narrazione
“Abbiamo parlato nello scorso capitolo di come il mito di Atlantide sia stato ripreso in alcune teorie ‘pre-scientifiche’, accomunate dall’idea che debba esservi stata una sola isola corrispondente nella realtà al racconto tramandato da Platone. Alcune di queste speculazioni come abbiamo visto, finiscono più o meno involontariamente, più o meno implicitamente, per richiamare il topos del popolo primigenio, l’idea che sia esistita, o addirittura possa esistere ancora nascosta da qualche parte, una stirpe ‘superiore’ alleata con gli dèi per governare sulle altre. Ora noi indosseremo di nuovo le scarpe comode per una camminata nei sotterranei di Bologna, in un luogo mai ‘indagato’ sotto questo aspetto, che porterà a interessanti scoperte”.
In questo capitolo noi prenderemo in esame un mito di fondazione della città di Bologna, che la vuole nata non nell’VIII secolo ma nel XII, poco dopo la guerra di Troia, o addirittura nell’età del bronzo, subito dopo il ‘diluvio universale’.
Silio italico e con esso non pochi altri scrittori la vogliono edificata da Ocno, figlio di Tiberino, il quale fu re de Toscani 1125 anni incirca prima della venuta al mondo del nostro Divino Redentore. L’autorità di Silvio Italico, libro VIII e la seguente: “Ocni prisca domus, parvique bononia Rheni”. Si ponderi la riflessione che fa su questo punto il chiarissimo Monsignore Guarnacci nelle sue Origini italiche. Dice egli: Dall’istesso Ocno figlio di Tiberino fu edificata ancora Bologna, come Sirio Italico afferma e perciò da Plinio si spiega, e si qualifica per città Toscana. Virgilio chiama Mantova in questo luogo ipsa caput populis e Plinio chiama pure Bologna princeps etruriae.
C. Orlandi, Delle città d’italia e sue isole adiacenti, compendiose notize sacre e profane compilate da Cesare Orlandi, nobile patrizio di Fermo, di Atri, e di Città della Pieve, pubblicato in Perugia, 1775.
Nelle fonti letterarie più antiche si nominano soltanto le origini umbre o etrusche della città di Bologna, mentre in epoca medievale è tramandata una leggenda che troviamo ricordata con dovizia di particolari nel XV secolo da fra’ Gerolamo Borselli e nel XVI dal predicatore Leandro Alberti. In questa versione del racconto sulla fondazione di Bologna, Aposa risulta essere la moglie d’un valoroso guerriero giunto a Ravenna dall’Oriente dopo aver attraversato il mare, la donna ha molti figli e nipoti quando in una giornata molto afosa, volendo bagnarsi nel torrente, viene travolta dalle onde e muore annegata. Riporto fedelmente il testo cinquecentesco del domenicano Alberti, il quale colloca l’evento molto prima del tempo in cui normalmente pensiamo sia stata fondata la città, e colloca i natali dei due sposi niente meno che nelle steppe dell’Asia Centrale, precisamente nella Scizia ovvero quella regione che si trova nell’attuale Federazione Russa al nord del Caucaso e del Mar Caspio, la stessa regione da cui i Greci ritenevano provenisse la dea Circe, zia di Medea.
“Poi l’Universale Diluvio della Terra, essendo accresciuta tanto la generazione humana nelle parti di Scithia, che ivi abitare comodamente non potea, cominciarono gli huomini a pensare di ritrovare nuove habitationi, e fra gl’altri avendo inteso Fero huomo di gran prodezza, la bontà del continente della terra, hora Italia nominata, posta fra duemari cioè il Tirrhenno e Adriatico, poi così addimandati, si pose insieme con Aposa sua moglie, con li figlioli, nipoti e molti altri di volere in questo luogo passare. Et così passando il mare passò al luogo, ove fu costrutta Ravenna. Et quivi lasciando gli altri compagni, solamente con la moglie, e figliuoli, più oltre camminando, gionse a un torrente vicino le radici del colle, poi addimandato Appennino, e in questo luogo fermandosi (che è fra il fiume Savena e Rhenno, così dai posteri nominati), fece una casetta appresso il detto torrente, avendo animo d’habitare quivi, molto aggradendogli il luogo, il quale ha dal mezzogiorno il vago colle, dall’oriente, settentrione e occidente la larga e amena campagna. Et acciò più agevolmente potesse passare dall’una e l’altra parte del detto torrente per coltivare il paese, costruì un ponte di pietra da sé domandandolo Ponte di Fero, il quale infino a oggi è appresso la chiesa di S. Cosmo e Damiano, ancora così addimandato. Crescendo poi successivamente de figliuoli, e nipoti, parimente accresceva in numero le rozze habitationi, e così di continuo moltiplicandole, divennero in tanta copia che avevano forma di una lunga e larga Contrada. Succedendo con tale felicità le cose di Fero, occorse un giorno che Aposa per la grave stagione del caldo, essendosi spogliata de vestimenti, scese nell’acqua per lavarse e rinfrescarse. E così trastullando, ecco sovragiungendo la furia dell’acqua per la gran pioggia scesa sovra li monti, in cotal maniera fu sbigottita, che non sapendo che fare ad alta voce cominciò a chiedere aiuto. Ma tardo venendo, fu dall’acqua sommersa”.
Leandro Alberti parla d’un popolo giunto dalla Scizia nel periodo successivo al Diluvio Universale quando un notevole incremento demografico, così spiega il testo, portò alcuni uomini a ricercare nuove terre da coltivare: se ragioniamo con la mentalità dell’uomo di chiesa dobbiamo collocarlo dopo l’arca di Noè ma prima di Abramo, altrimenti non avrebbe senso il riferimento al diluvio. L’evento di cui parla il frate domenicano risale perciò secondo il suo dire alla prima età del bronzo, più o meno 4000 anni Avanti Cristo; le fonti romane collocavano la stessa vicenda nel XII secolo a.C., periodo in cui s’andava affermando la cultura delle Terramare di cui abbiamo testimonianza nei pressi di Anzola Emilia, fine dell’età del bronzo; per chi non lo avesse ancora capito, le Terramare sono un’evoluzione delle palafitte già presenti in quelle stesse zone da almeno due millenni, lo stesso tipo di insediamento descritto da Platone quando parla del mito di Atlantide. In altre parole, nelle fonti antiche la fondazione di Bologna viene anticipata rispetto alla nascita della Felsina etrusca, la si colloca in un periodo molto precedente alla presenza d’una ‘facies’ propriamente urbana.
Si direbbe insomma che le fonti antiche fossero consapevoli di una continuità sostanziale tra i villanoviani e il primo insediamento propriamente cittadino nella Felsina etrusca. In principio dunque, stando a questi racconti di cinque, sei secoli fa, Bologna dev’essere nata come una civiltà dell’acqua, su palafitte poi successivamente evolutasi nelle terramare, di cui effettivamente sono rimaste numerose testimonianze archeologiche sul territorio, archeologia e paletnografia sarebbero dunque propense a confermare questi miti di fondazione classici e medievali. Ora noi sappiamo che in varie località dalla valle dell’Indo al Medioriente, dal Giappone all’Europa, sono state rinvenute le tracce d’insediamenti umani databili all’età del bronzo e sviluppatisi sull’acqua, con zone di mare e di terra che si alternavano ad anelli concentrici quando l’invaso delle canalizzazioni veniva riempito nella stagione delle piogge. Una tecnologia antica, grazie alla quale venivano convogliate le acque in modo tale da creare un fossato difensivo in località palustri soggette a esondazioni stagionali, che rendevano la terra intorno fertile a causa del limo depositato dalle acque ritirandosi.
E’ questo tipo d’insediamento a consentire la nascita delle prime civiltà stanziali, l’agricoltura e la pastorizia iniziano finalmente a svilupparsi in modo tale da non consumare le risorse del suolo rendendolo infertile. Uno schema d’insediamento così complesso richiedeva competenze avanzate nella progettazione, nella costruzione e nella manutenzione delle infrastrutture, non può essersi sviluppato dal nulla e soprattutto è ben lontano dall’idea di ‘mondo selvaggio’ cui siamo abituati a pensare parlando di palafitticoli. Al contrario i popoli delle terramare e la loro evoluzione successiva, i cosiddetti Villanoviani, erano tutt’altro che ignoranti; la ricerca sul campo ha messo in evidenza una sostanziale continuità nelle culture sviluppatesi durante l’età del bronzo in tutto il mondo allora conosciuto e la nostra ‘civiltà contadina’, quella in cui vivevano completamente immersi ancora i nostri nonni fino a trenta, quarant’anni fa. L’ipotesi dell’inculturazione a partire da un’avanguardia tecnologica è verosimile, ma non può essere ascrivibile a un luogo soltanto: non una sola Atlantide quindi, ma tanti luoghi condivisi da popoli organizzati in confederazioni di villaggi, che non si davano ancora una struttura burocratica né un governo centralizzato.
Una cultura dell’acqua, che ha attraversato diversi popoli in diverse regioni del pianeta ed è giunta non sappiamo come praticamente fino a noi. In altre parole, quel modello d’insediamento urbano e di cultura materiale è tutt’altro che svanito nel nulla con la scomparsa dei cosiddetti ‘atlantidei’ a gran voce dichiarata nel mito platonico. Sappiamo anzi che a partire dall’età comunale Bologna è tornata ad essere ancora una volta una città d’acqua, come Venezia, Ravenna, Comacchio, il rapporto fra l’industria tessile bolognese e i mulini ad acqua è rimasto pressoché invariato fin dallo scavo della rete idrica sotterranea subito dopo l’anno Mille e tale è rimasto fino alla seconda e alla terza rivoluzione industriale,
quando canali corsi d’acqua sotterranei verranno almeno parzialmente interrati, in parte abbandonati all’incuria o riconvertiti semplicemente in clavature.
Se valutiamo con più attenzione le fonti antiche noteremo che attribuiscono la fondazione della mitica Felsina a una civiltà la cui presenza è attestata in tutta la pianura padana molto prima della cosiddetta Etruria Padana: siano stati Umbri, Liguri o Etruschi, gli eroi eponimi della città vengono presentati come parenti dell’aristocrazia dominante in quel periodo la regione dell’attuale Toscana, di Ocno si dice addirittura che sia stato il primo re di Mantova, nell’Eneide compare tra gli alleati etruschi di Enea durante la guerra contro i Rutuli, siamo dunque nel periodo cantato dagli omeridi, pochi anni dopo la guerra di Troia, la prima età del ferro. Leandro Alberti va oltre, anticipando la leggenda a un tempo biblico di poco successivo al Diluvio Universale, ma precedente la figura di Abramo, prima dell’invenzione della scrittura, identificando nelle steppe dell’Asia Centrale il luogo da cui partirono Fero e Aposa attraversando il Mar Nero.
In altre parole il domenicano che tramanda l’antica leggenda, non parla di un re etrusco ma di un uomo giunto dalla Scizia all’inizio dell’età del bronzo, più di tre millenni prima di Cristo: la civiltà a cui la leggenda medievale di Aposa rimanda risulta intrecciata a doppio filo con la storia delle civiltà dell’acqua che hanno popolato la pianura padana fra il 3500 e il 1100 a.C., all’epoca terreno ostile per l’insalubrità degli acquitrini ma anche immensamente fertile. Il riferimento è compatibile con la cultura delle Terramare, che durante l’eta del ferro vale a dire dopo l’XI secolo a.C. si sarebbe evoluta in quella villanoviana, articolandosi poi a partire dal IX secolo nella cosiddetta civiltà etrusca. Non più Etruschi dunque, ma più verosimilmente Micenei.
A quanto pare la versione mitica del racconto trasmesso dall’Alberti a partire dalle fonti latine presuppone un contesto storico, sociale e urbanistico, al quale riportano molte altre testimonianze come quella di Alfonso Rubbiani che attribuisce la profezia dell’Aposa a un augure umbro secondo cui il torrente avrebbe prima o poi distrutto Bologna, o Carlo Lupi che nel 1935 pubblica una provocatoria monografia dal titolo “Erano villanoviani, gli etruschi?” nel quale avanza la teoria di un’evoluzione pacifica dall’una all’altra civiltà, dovuta al benessere che avrebbe portato a una nuova stratificazione sociale, quindi alla progressiva differenziazione delle sepolture e al prosperare dell’economia. La cultura delle palafitte evolve dunque i popoli dell’età del bronzo in cittadini etruschi, poi romani, poi europei e così via. I ritrovamenti archeologici mostrano la compresenza di etruschi nella zona di piazza Minghetti e villanoviani al Pratello nello stesso tempo storico, difficile immaginarli come popoli distinti: molto più verosimile pensare ai primi come un’elite culturale, una nuova aristocrazia formatasi per l’appunto con la trasformazione delle precedenti società in quello che finora abbiamo considerato un popolo nuovo, ma che in realtà si viene a costituire solo come nuova classe dirigente all’interno di un contesto sociale profondamente mutato.
Questo racconto costringe a retrodatare l’origine della nostra città, restituendo al popolo dell’acqua la dignità che merita e considerando la facies propriamente urbana solo una parte recente della sua storia. Bologna è ben più antica di quanto siamo portati a credere, i ritrovamenti a Villanova, Anzola, Marzabotto, non appartengono a popoli ‘primitivi’ scomparsi nel nulla senza lasciare traccia, ma agli antenati di quelle stesse persone che si sono poi affacciate alla ribalta della storia, quei popoli hanno lasciato alla città un’eredità difficilmente valutabile, se consideriamo l’importanza delle acque e dei navili per quasi mille anni sul nostro territorio. L’aspetto forse più interessante in tutta questa vicenda, è il modo in cui il mito di Atlantide, passato attraverso la decadenza nel periodo classico ed ellenistico, sia tornato a imporsi nel territorio bolognese nell’età tardo medievale, comunale, fino al Rinascimento e oltre, quando non solo Bologna è tornata ad essere una civiltà dell’acqua, ma il sistema di canalizzazioni scavate nel sottosuolo dopo l’anno Mille ha dato impulso all’arte della tessitura che per ottocento anni ha reso la città una potenza commerciale, basata sui mulini ad acqua che gli artigiani bolognesi installavano persino nelle cantine delle abitazioni private.
Il racconto mitologico ha dimostrato di poter offrire modelli che l’azione collettiva poi si è presa la responsabilità di elaborare, assimilare e perseguire: dall’idea al sogno, dal sogno all’azione cosciente. Nessuno si è mai posto il problema di documentare l’esistenza reale della principessa annegata nel torrente, la quale forse rimanda in modo vago e nebuloso ai sacrifici umani ancora in uso nel periodo storico in cui ne viene collocata la triste e dolorosa vicenda. L’Alberti nel XV secolo ricostruisce un mito eponimo compatibile con la realtà che ha sotto gli occhi, non gli interessa il vero, ma che i bolognesi del suo tempo si possano identificare in quest’origine mitica della città. Riletta in questa prospettiva, la presenza stessa di una statua del Nettuno in piazza Re Enzo assume un significato assai più profondo. L’abate Leandro Alberti nell’elaborazione del suo racconto non si comporta in modo poi dissimile da quei fratelli Grimm che avevamo osservato in apertura del nostro lavoro sulla narrazione, i quali raccoglievano fiabe, leggende, racconti popolari nel dichiarato intento di ‘costruire’ un folklore germanico, funzionale alla nascita di un rinnovato sentimento nazionale.
Ancora una volta immaginazione e realtà si toccano, si baciano, si confondono nella motivazione all’azione che le storie suggeriscono. Qui sta la potenza del mito, in questo senso le storie sono vere, per quanto possano trasfigurare la realtà, è sempre a essa che riportano. Alle innumerevole atlantidi descritte negli studi pre-scientifici tanto in voga nel nostro tempo, dovremmo forse aggiungere il sito stesso di Bologna? La nostra risposta è no. Nel prossimo capitolo andremo a vedere come un discorso analogo a questo si può fare intorno alla città di Napoli e in senso ancor più ampio intorno a qualsiasi altra comunità locale, in qualsiasi altra parte del mondo, ovunque si vada a ritroso nel tempo alla ricerca dimiti eponimi. Tutto questo per scoraggiare nuovi tentativi di mistificazione intorno a una speculazione che non ha nulla di critico, nulla di scientifico, ma va a inserirsi nell’elaborazione stessa del mito, ha un valore puramente ideologico. Fatto questo, sarà nostra cura svestire le scarpe comode e tornare sui banchi di scuola, per capire in che modo questo genere di idola, questi pregiudizi baconiani, agiscano su più livelli, quanto siano insidiosi e come riconoscerli per tempo. Infine, vedremo in che modo quel meccanismo che avevamo inizialmente attribuito all’indagine folklorica, finisca per influenzare tutto il sistema dell’informazione, contribuendo alla disinformazione, e come ancora una volta la soluzione a quest’infezione di massa non si possa delegare alle istituzioni, al potere politico, né a quello economico e tantomeno a quello religioso, ma vada perseguita individualmente prima, collettivamente poi, al livello della comunicazione orizzontale. Ognuno di noi è roccaforte del proprio buonsenso.