Le macchine sono stupide. Fantascienza italiana
Federico Berti
Le macchine
sono stupide
L’ospedale fantasma n.36
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
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L’istituto Alderico Barbacani si prepara a un nuovo periodo di prosperità, nuovi ambulatori verranno aperti, servizi e assunzioni in vista, peccato per i murales del falsario messicano detenuto nel manicomio criminale, di cui si prevede comunque la pulizia. Il mistero degli androidi è finalmente chiarito da una comunicazione scritta.
IL DECRETO DI SCARCERAZIONE
La vita quotidiana è molto diversa ora tra le pareti dell’ospedale. Tecnici, ispettori, funzionari, medici, infermieri vanno e vengono da una struttura finalmente bonificata dal ridondante apparato dell’intelligenza artificiale; il mio decreto tarda un poco ad arrivare ma al momento la cosa non mi disturba, la vivo come una sorta di villeggiatura a carico delle istituzioni. Ho anche una piccola diaria giornaliera da ritirare all’ufficio postale, un anticipo sul risarcimento che il ministero di grazia e giustizia dovrà comunque provvedermi; ogni mattina mi alzo di buon’ora, esco appena spunta il sole e m’incammino a piedi verso il Caffè Burletta, quello coi tavolini in piazza. Un buon editore dovrebbe far sempre colazione al bar, è il miglior termometro sociale che conosca; una volta mi prendevo anche il tempo di leggere almeno tre o quattro giornali diversi per confrontare le notizie, oggi cosa vuoi mai… Una sola testata è più che sufficiente, non vedo più quelle fiere contrapposizioni d’un tempo, l’informazione è ridotta per lo più a gossip di terz’ordine.
Un bel mattino, il portalettere m’incontra in piazza. “Ho qualcosa per voi” dice, infilando una mano nella borsa: è una cartolina, me la consegna guardandosi intorno con viva preoccupazione, poi senza nemmeno lasciarmi il tempo di ringraziare sparisce dietro un dosso della strada provinciale come se il diavolo gli tenesse dietro. Che sarà mai penso tra me, tenendola fra le dita e rigirandola più volte per rendermi conto almeno del mittente: è una cartolina illustrata dalla Spagna, per la precisione raffigura il santuario di Compostela.
Manca il francobollo, dev’essere passata di mano in mano attraverso i Pirenei e le Alpi, prima di ripercorrere all’indietro la via Francigena, mentre son lì che mi chiedo quale rete di volenterose staffette possa essersi presa tanto disturbo, l’occhio mi cade sulla grande firma in corsivo. Non riesco a trattenere un sorriso: è l’uomo con la balestra, l’assassino del Lago Maggiore, il lupo di Valacchia. Vlad mi manda i saluti dalla Spagna, con un breve messaggio di commiato e un’accorata raccomandazione, dalla quale improvvisamente ogni cosa mi appare molto più chiara: è come togliere il velo dal corpo d’una statua per goderne finalmente l’armonia delle proporzioni. Poche parole, sintetico ma implacabile: “Non muovere quadro da studio di pittore”.
ROMPERE L’ASSEDIO
Un fulmine a ciel sereno, quel gran figlio di buona donna! Altro che robotica, intelligenza artificiale, androidi che prendono coscienza o altre sciocchezze come quelle che sento dire nel vuoto mediatico della stampa, Maria non conta le pecore prima di addormentarsi: ero sicuro che una spiegazione più semplice dovesse far luce sul mistero, la genialità di quell’uomo senza gloria non finisce di stupirmi. Inutile dire che non ha agito per spirito di servizio ma solo nell’intenzione di rompere l’assedio che polizia, carabinieri e guardia i finanza gli avevano teso, meglio ancora volendo far perdere le tracce a chi gli aveva trovato un riparo nel sotterraneo dell’ospedale, lo stesso ragioniere presidente della cooperativa che l’aveva in gestione.
Ma andiamo con ordine, ho visto coi miei occhi lo slavo entrare con un telefono cellulare nel pannello Domoticart e prendere il controllo su alcune delle unità quel giorno in cui Gustavo arrancava sul flipper infastidito da un moscone digitale, credevo fosse una scoperta di quel momento. Sbagliavo. Vlad è stato per molti anni un militare a contratto, uno capace di passare attraverso i muri come le benedizioni; era già entrato più volte nel sistema operativo dell’azienda e nessuno se n’era mai accorto, ora finalmente m’è chiaro il suo folle disegno. Fin dal primo giorno nel castello dei sogni proibiti, s’è messo a studiarne l’impianto e in poche settimane è riuscito a trovare il punto debole: qualche riga di programma in posizione secondaria, di quelle che si danno per scontate. Un codice nel quale vengono dati alcuni parametri in modo tale che droni e androidi sappiano riconoscere un detenuto da un normale paziente, un ospite da un visitatore. Vlad ha lasciato tutto così com’è, cambiando solo un numero: la riga di programma da leggere per definire l’obiettivo da tenere sotto controllo.
LE MACCHINE SONO STUPIDE
In pratica, quelle bambole micidiali erano convinte di dover proteggere solo il quadro di Manuel Sandino, quello che raffigurava il volto di Maria e non veniva mai mosso dal cavalletto. Ecco perché l’angelo della robotica si fermava tutti i giorni a osservarlo, quando veniva l’ora del tramonto: una ronda, non contemplazione o godimento estetico. L’azienda non s’era mai accorta della manomissione perché in sostanza gli androidi non presentavano un comportamento anomalo, per proteggere il quadro dovevano tenere sotto controllo tutti gli ospiti, soccorrerli in caso di bisogno, prendersi cura di loro e così via; nessuno alla consolle nel quartier generale Domoticart se n’era mai reso conto, credevamo che tutto quell’apparato servisse a controllare noi, ma se fossimo davvero scappati nessuno ci avrebbe inseguito, era soltanto la nostra convinzione d’essere prigionieri a tenerci lì dentro.
Ora mi spiego un altro dettaglio che fino ad ora m’aveva lasciato interdetto, il motivo per cui l’algoritmo non s’è accorto delle nostre manovre per organizzare la festa illegale, la compilazione a mano dei volantini, il loro stoccaggio, la costruzione del gigantesco mutoid, la confezione dei tortellini: per quanto noi volessimo ostentare disinvoltura, mi sembrava alquanto insolito che un calcolatore non avesse rilevato nessun’attività sospetta. La verità è che non glie ne fregava proprio nulla, per loro l’importante era che nessuno andasse intorno al quadro; non escludo che lo stesso Manuel abbia provato a spostarlo dal cavalletto e l’abbiano scoraggiato dal riprovarci, povero diavolo quante ne ha prese da quelle stupide caffettiere.
Il motivo per cui Vlad ha deviato il sistema di sorveglianza è evidente: sapeva che per scatenare l’inferno bastava rubare il ritratto di Maria, gli androidi sarebbero impazziti per ritrovarlo e lui avrebbe approfittato della confusione per dileguarsi nel nulla. Non subito, però. Doveva aspettare che si calmassero un poco le acque, scegliere il momento più adatto, quando è venuto a conoscenza delle mie indagini sulla morte dell’architetto, del rivolgimento che intendevo portare nell’istituto, ma soprattutto quando s’è reso conto che i miei sospetti ricadevano proprio sul ragionier Linguatorta, il suo misterioso benefattore, allora ha capito che nessun’occasione avrebbe potuto essere più propizia per lui. Questo il motivo per cui ha favorito in ogni modo l’organizzazione della mostra, forse prima di scappare deve aver rubato lui stesso il ritratto del robot per nasconderlo da qualche parte in mezzo alla folla, suscitando così l’ira funesta delle Erinni. Stupito e sorpreso dalla fantasia perversa dello slavo, brucio la cartolina lasciandola consumare nel portacenere, dopo aver pagato il mio caffè riprendo la via del ritorno. Gli androidi non contano le pecore mi ripeto ancora una volta, le macchine non hanno sentimenti. (Continua)
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La distopia tecnologica in un romanzo
ambientato sull’appennino bolognese
che racconta una realtà inquietante
sospesa tra presente, passato e futuro
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