Artisti di strada e ordine pubblico
Arte di strada
e ordine pubblico
LE LEGGI DI PUBBLICA SICUREZZA
Dal ventennio fascista all’alba del nuovo millennio l’attività degli artisti di strada è stata considerata dalla legge italiana per lo più come un problema di ordine pubblico, per svolgere questo tipo di attività infatti bisognava essere cittadini italiani incensurati iscritti nel Registro dei Mestieri Girovaghi evitando l’assembramento sedizioso, la propaganda politica, l’abuso della credulità popolare e ovviamente il disturbo della quiete pubblica. L’attività in sé non era proibita, ma le norme favorivano quelli che potevano permettersi uno o più abbonamenti annuali al suolo pubblico, vale a dire una piazzola fissa come nel mercato. Una sorta di licenza, insomma. La vera sorpresa è che il regio decreto del 1931 non venne imposto dal regime in modo unilaterale bensì rispondeva a un’istanza presentata dagli artisti stessi. L’etnografo Gian Paolo Borghi riporta una richiesta formale al podestà di Reggio Emilia da parte del cantastorie Umberto Callegari per distinguere la sua categoria da quella dei comuni mendicanti, dei ciarlatani e dei piccoli truffatori. Non che il lavoro dei cantastorie fosse estraneo all’attenzione delle questure, diversi tra loro venivano regolarmente arrestati e ospitati nelle patrie galere in occasione d’ogni comizio nelle vicinanze, provvedimento preventivo soprattutto a danno di quelli non iscritti al partito o che avevano manifestato apertamente posizioni ostili alla politica del regime.
Tratto da Federico Berti
“Gli artisti di strada non sono mendicanti”
L’ART. 121 T.U.L.P.S.
Dopo la caduta del fascismo, questo tipo di atteggiamento s’è ulteriormente aggravato con il governo Scelba quando venne proibito qualsiasi assembramento non autorizzato, fosse anche solo di dieci persone; per occupazione di suolo pubblico s’intende anche solo una valigia poggiata in terra. L’uso delle maschere è a sua volta vietato (ancora oggi) al di fuori del carnevale, per motivi di sicurezza. Un problema di ordine pubblico, per l’appunto. E’ per questo che negli anni ’90 s’invocò a gran voce la cancellazione della parola ‘saltimbanco’ dal registro dei mestieri girovaghi, questo sembrava rispondere a un criterio di semplificazione, si voleva evitare ad esempio la discriminazione dei pregiudicati favorendone piuttosto il reinserimento nella società, snellire la burocrazia relativa al conseguimento dei permessi e restituire dignità a un ruolo che non sembrava più riconosciuto.
La dura scuola della strada inizia a casa. Dove studiare. Street art tutorial.
Non tutti gli artisti di strada erano favorevoli, numerose furono le perplessità da parte di chi allora viveva in prevalenza del proprio cappello, tra cui l’autore di questo libro che raccolse numerose testimonianze in un fascicolo tuttora conservato all’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino (Fi). Le ragioni della diffidenza erano molte, in primo luogo il timore che l’istituzionalizzazione avrebbe influito negativamente sulla capacità di autogestione da parte degli artisti stessi, attirando sulla strada persone motivate da obiettivi diversi rispetto a quelli che allora animavano gran parte di noi. In secondo luogo, la consapevolezza che associazioni locali, coordinamenti e federazioni affiliandosi alle istituzioni di tipo corporativo ne avrebbero prima o poi assunto anche le modalità d’intervento favorendo così un sistema che di fatto incoraggiasse la competizione fra gli artisti e un progressivo assorbimento della libertà creativa nel linguaggio del mainstream. Si temeva allora che prima o poi si sarebbe annegati in un mare di cover bands, piano bars e karaoke.
DALLA MARGINALITA’ AL MAINSTREAM
Così è stato infatti. Nel frattempo molti giovani allora idealisti consolidarono la posizione professionale, ebbero carriere folgoranti nella radio, nella televisione, nel teatro, aprirono agenzie di spettacolo, diedero vita a rassegne internazionali diventate poi un punto di riferimento nel panorama europeo, aprirono scuole di circo, si occuparono a vario titolo di formazione, corsi, stages, seminari di approfondimento. Essendosi consolidata una fiorente nicchia di mercato nell’intrattenimento popolare, nelle feste di piazza e nelle rassegne a sovvenzione pubblica, le nuove generazioni di artisti si curarono sempre meno del cappello.
La nuova posizione in cui venne a trovarsi la federazione di realtà locali consentì di ottenere la cancellazione della parola saltimbanco dal 121 TULPS e in buona sostanza il 2001 rappresenta uno spartiacque a partire dal quale l’arte di strada ha smesso di risolversi in un banale problema ordine pubblico. Bologna, Milano, Torino, Roma, Napoli, Venezia, Trieste, Palermo, Genova, le più importanti città italiane han riformato la loro legislazione in materia, partendo dal presupposto che quel tipo di attività costituisse finalmente un valore culturale e che anzi bisognasse incoraggiarne il supporto. Non era molto, ma almeno così la forza pubblica sarebbe intervenuta solo quando esplicitamente invocata dalla cittadinanza. Un passo avanti che per circa dieci anni ha consentito l’instaurarsi di un equilibrio fra le parti. Bastava un atteggiamento collaborativo e trasparente, la disponibilità nello scendere a patti col vicinato e in piazza si poteva lavorare senza grossi problemi.
Artisti di strada, le reazioni del pubblico e la ‘quarta parete’ del teatro. Coinvolgimento o manipolazione?
LA CRISI DEL NUOVO MILLENNIO
Come spesso accade, qualcuno se n’è approfittato. Con la crisi finanziaria che ha colpito la piccola e media impresa il mercato delle rassegne a contratto è entrato in crisi, nel contempo il numero delle bocche da sfamare è cresciuto e il movimento s’è incanalato in una parabola discendente. Ad aggravare la situazione la chiusura delle fabbriche, i licenziamenti di massa. Molti cittadini che con la strada non avevano mai avuto a che fare, cercarono nelle loro passioni di gioventù una soluzione alla miseria dilagante, le piazze si son trovate invase da una quantità enorme di suonatori, commedianti, pittori con differenti obiettivi e aspirazioni, avvezzi per lo più alla modalità del teatro d’arena, del concertino e dello spettacolo in teatro. Gli spazi urbani vennero dunque sfruttati in modo intensivo al punto da entrare spesso in contrasto con una cittadinanza che prima tentò una conciliazione diretta, ma poi dovette rivolgersi alla forza pubblica per arginare un fenomeno sfuggente a qualsiasi controllo.
Non più due o tre punti spettacolo in contemporanea nello stesso centro storico, ma cento volte tanto per un totale di circa diecimila artisti sul territorio nazionale e centinaia di spettacoli in contemporanea sul medesimo territorio cittadino. Lo scontro conclamato s’è tradotto in multe anche piuttosto salate non tanto per l’esercizio abusivo quanto per volumi alti all’amplificatore, violazione della proprietà privata, mancata osservazione delle norme sul plateatico, evasione del diritto d’autore, resistenza e oltraggio al pubblico ufficiale. Non era insomma la pratica in sé ad essere presa di mira, ma l’arroganza e la maleducazione di un numero sempre più elevato di persone. Come se non bastasse, il racket delle elemosine prese il controllo in molti casi dislocando in modo strategico sul territorio la sua manodopera servile. E’ stato allora che la federazione degli artisti di strada ha redatto un codice etico, inserendosi in un solco aperto dall’autore di questo libro diversi anni prima, iniziando a promuovere strumenti per l’istituzionalizzazione del fenomeno. Una linea secondo alcuni discutibile sotto il punto di vista didattico e culturale, ma senz’altro in accordo con la svolta corporativista che da anni sta prendendo la politica internazionale. La via è tracciata, indietro non si torna.
Tratto da Federico Berti
“Gli artisti di strada non sono mendicanti”
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