La morte in vacanza. Fantascienza.
La morte in vacanza
L’ospedale fantasma Cap.14
Romanzo di Federico Berti
Gelido vento nella tromba delle scale ulula il coro del Nabucco, inquietante come un’orchestra di cani randagi. Mi afferra col suo artiglio piantando le unghie nel collo, sui fianchi, è un serpente a cento code che s’infila dappertutto ghiacciando le ossa nel midollo. Questi spifferi! Inutile tamponarli, riescono a scavarsi una via per il nostro corpo e per le nostre menti. Aria di fessura. Ho accompagnato l’ombra dell’uomo con la balestra in biblioteca al piano seminterrato, nel risalire mi trovo davanti l’immagine più terrificante che potesse accogliermi in simile turbinar di mulinelli. La signora delle tempeste. Cleonice Ficalessa assistente sociale anoressica, indossa un abito leggero con la gonna bianca aperta a ventaglio sopra il ginocchio, le spalle scoperte e un’imbarazzante scollatura che mostra il rilievo delle prime tre costole. Un neo sotto la scapola, le fosse scavate dall’inappetenza dentro le quali annegano pupille irritate dalla prolungata secchezza dei tessuti, labbra vizze di novantenne s’appiccicano l’una all’altra mentre parlano sotto voce, mormorando con quel po’ di fiato che i polmoni riescono ancora a raccogliere.
Nel vederla in quello stato non so se darle un mese o due al massimo di vita, o se pensarla addirittura già morta, lampo d’inerzia residua, canto del cigno nero. Mi scruta severa in cima alle scale mentre la corrente le agita la gonna dal basso roboante fra ossa ricoperte dal sottile strato di pelle che la rivestono come guaina d’un filo elettrico. Mi viene incontro con le movenze di un manichino d’alta moda, ha l’aria di non essersi mai sentita così donna: tutta sola in un sottoscala con una libellula meccanica a batterie solari che la segue a poca distanza, non ho ancora capito se per difenderla in caso d’aggressione o sorvegliarla ovunque vada. Dietro gli occhi dell’insetto s’apre una consolle di telecamere a circuito chiuso, siamo costantemente in onda via satellite e non possiamo nemmeno sapere dove si nasconda chi studia ogni momento della nostra misera esistenza. Il burattino d’ossa avanza ammiccando e sussurrando parole che non riesco a comprendere con chiarezza, quand’è a un passo da me si sporge col mento in avanti. Vuole baciarmi. Non sono nelle condizioni di opporre alcuna resistenza, le basta una firma per farmi sbattere in cella d’isolamento, quelle vasche da bagno in cui raccolgono le tue feci mentre legato con spesse fasce di tela dondoli la testa disteso nel lenzuolo pieno di buchi, coperto di ragni, blatte, topi di fogna che vengono a godersi la tua merda. Meglio non contraddire questa donna, lei rappresenta l’autorità istituzionale qui dentro. L’ignoranza eretta a paradigma. Al contatto con le sue labbra mi sento gli spilli aguzzi del pelo conficcarsi nella pelle, ho un brivido. Vuole farmi strada, la seguo come un bambino segue il proprio carnefice dietro il muretto d’un parcheggio.
Non conoscevo l’esistenza di questa sala da tè, devono averla aperta da pochi giorni. Si trova al secondo piano, sarà il frutto delle fantasie di qualche anziana sognatrice; il bancone in stile ottocentesco alla francese era apparso nel corridoio la scorsa mattina, ma non sapevo se avessero intenzione di smontarlo per ricavarne materiale da costruzione, oppure se fosse pensato per rimanere così com’è. L’angelo della robotica s’è infilato un grembiule bianco orlato di pizzo per proteggersi i circuiti da eventuali incidenti di percorso, serve due tazze d’acqua calda con un astuccio in vera pelle pieno di filtri da erborista. Per me un infuso alla melissa, per la morte un finocchio. Dice che le regolarizza la digestione. Cos’avrà mai da digerire una donna d’un metro e sessanta per venticinque chili, mi domando. Lei nota il mio disappunto. “Siete un uomo tanto caro”, esordisce col tono di chi ha qualcosa d’importante da dire. “Da quando siete arrivato qui sono cambiate molte cose, il merito è senz’altro vostro, avete una sensibilità che vi rende assolutamente speciale”. Nel dire questo sbatte più volte le palpebre tenute insieme col mascara. Taccio per non scoraggiare la sua affettata cortesia, lei prosegue: “Abbiamo notato come siete riuscito a stimolare quel pover’uomo a costruirsi una chitarra in materiali di recupero, vi abbiamo anche sostenuto nell’idea lasciandovi trovare in discarica il necessario. Così è stato per quelle donne timorate del cielo, avete avuto un’intuizione davvero notevole: siete nel vero, bastano poche sedie intorno a un’edicola per dar loro il senso della comunità”.
E’ come pensavo dunque. Osservano, studiano, prevedono e fanno in modo che il centro raccolta dell’isola ecologica offra ai detenuti quanto necessario per dare forma ai loro sogni. Così passano il tempo senza creare inutili problemi al sistema di sorveglianza. La vita qui dentro finisce per sembrar loro quasi più desiderabile della libertà. Qualcosa però non soddisfa a pieno le aspettative della mia interlocutrice, “Tuttavia pur apprezzando il vostro metodo, ritengo che dovreste aver chiaro l’obiettivo finale”. La guardo nell’incavo dell’orbita, “Siete in un carcere, non in un giardino dell’infanzia. Va bene render loro più gradevole il soggiorno, riempire il loro tempo, ma non esageriamo con questa sociologia da quattro soldi. Qui non si tratta di rieducare, ma di tirare a campare. Spero possiate comprendere il mio timore e comportarvi… Di conseguenza”. Nel pronunciare queste due ultime parole, i nervi del volto si sono contratti in un’espressione severa, anche la voce è più secca, perentoria, il volume più alto e lo sguardo non lascia adito ad alcun malinteso. Lo scheletro in gonnella mi sta palesemente minacciando, sotto gli occhi delle telecamere che vivaci svolazzano intorno alle poltrone in velluto damascato. La bionda si alza in piedi sui tacchi a spillo e roteando i fianchi strofina quasi la coscia denutrita sul mio naso, baciandosi la punta dell’indice aggiunge: “Siete una persona di buon senso”. Ciò detto scompare nella tromba delle scale seguita dalla libellula, mentre l’androide col grembiule viene a raccogliere le tazzine dal tavolo. (Continua)