La profezia degli uccelli. Spartaco, Cap.4

Federico Berti, La profezia degli uccelli. Spartaco, Cap.4


Federico Berti, Spartaco

Cap.4, La profezia degli uccelli.

Romanzo di Federico Berti

I primi raggi del sole filtravano sottili come aghi attraverso le nuvole sparse, pizzicando gli occhi e insinuandosi fra le tettoie della borgata. L’aria fresca e pulita, una leggera brezza carezzava il viso della piccola Sibilla mentre sedeva sopra un’asse scheggiata posta di sbieco su due pietre, di fronte alla baracca. Indossava l’abito del giorno prima, aveva con se il cestino dei fiori. Guardava con impazienza lungo il viale che portava alla strada, ben sapendo che quello non sarebbe stato un giorno come gli altri. La casupola alle sue spalle sembrava più accogliente al chiarore del giorno, con il sole che illuminava il legno scolorito e la terra bagnata dall’acqua della pioggia. I suoni della vita quotidiana cominciavano a risuonare nella borgata, con le voci dei bambini e il canto degli uccelli rintanati fra quei tuguri ancora gocciolanti, a rimbeccarsi le loro enigmatiche profezie.

Ermete uscì vestito, pettinato, sbarbato di fresco. Indossata la camicia, lucidate le scarpe, aveva nascosto con cura un coltello affilato sotto la giacca di velluto fine. Da qualche tempo non si sentiva al sicuro e lo portava sempre con se. La sua figura imponente e distinta contrastava con l’umile scenario della borgata. Le grandi e inquietanti navi della sera prima erano scomparse dal cielo, lasciando il posto a marinai operosi che brulicavano intorno a un cumulo di basse nubi, sotto le quali danzavano gli stormi dei migratori. La piccola, preoccupata, gli si avvicinò chiedendo con voce flebile dove il barroccio del prete avesse condotto sua madre, temendo il peggio. “Che ne sarà di lei?” domandò, sopraffatta dal timore di esserne separata, o forse più di finire lei stessa in uno squallido istituto per orfanelle.

Ermete si inginocchiò guardandola dritto negli occhi, sorrise con dolcezza mentre le prendeva la mano. “Non temere”, le disse con voce calma e rassicurante, “Tua madre dovrà curarsi per un periodo, forse ci vorrà del tempo. Ma non devi preoccuparti, non ti abbandonerò. Devi darmi solo il tempo di sistemare alcune cose”. La donna era stata condotta in un ospedale psichiatrico, dal quale l’uomo in realtà non aveva idea se mai l’avrebbe vista uscire: doveva trovare il modo per evitare almeno alla bambina di cadere in mano a quelle istituzioni per l’infanzia che confondevano la disciplina con le sevizie e l’educazione al lavoro con lo sfruttamento minorile. Si avviarono entrambi pensierosi verso quella frontiera invisibile che separava la capitale del Regno dai suoi bassifondi.

Ermete lasciò la piccola Sibilla nelle vicinanze del mercato guardandola mentre scompariva tra la folla, poi si diresse verso la Trattoria della Pergola, dove sapeva di essere atteso. Il locale del vecchio Pasquino, con le sue pareti di mattoni a vista e i tavoli di legno logoro, era stato per lui una seconda casa negli anni dell’università. Li trovò tutti li riuniti, ognuno portava con sé il peso del proprio inglorioso presente e la memoria di un passato per il quale provava quasi vergogna. Quelli che erano stati carbonari, i volontari della milizia le cui uniformi ridotte a una trama di strappi su rammendi erano rimaste di sentinella nei guardaroba, come per una sorta di morboso feticismo, uomini le cui cicatrici sul volto raccontavano storie nelle quali non si distingueva più il ricordo dal ricamo. Non avevano esitato a passare da un sodalizio all’altro, da una loggia all’altra, per convenienza più che per convinzione. I loro volti imperscrutabili nascondevano intenzioni mal riposte, egoismi mal celati, mentre le loro mani si stringevano in un saluto discreto, segno di appartenenza a un mondo esclusivo e riservato.

“E’ la prima volta che ci ritroviamo dopo i fatti di Adua” disse con voce tremante uno di loro, “Chi di noi ha convocato questa riunione, vuole forse proporci nuove istanze impossibili, nuove cause perse? Che avrà mai di tanto interessante da dirci? Sarà mosso certamente da un senso di giustizia, il cielo possa dargli la chiarezza necessaria”. Ermete prese subito la parola, afferrando l’ombrello dalle mani del compagno e impugnandolo come un bastone. “E’ stata mia l’idea di questa riunione. Non di nuove congiure vengo a parlarvi, ma di fatti che mi stanno personalmente a cuore,” rispose con fermezza, “Voi lo sapete, ho perduto un figlio. Voi lo conoscevate bene il mio Spartaco, lo avete visto nascere, crescere e fare le sue scelte.”

La trattoria della Loggia, con la sua parvenza anonima e la complicità dell’oste, un vecchio libertario giacobino, era un luogo ideale per incontri di quel tipo. Gli avventori occasionali concentrati sugli affari del mercato che lambiva il loggione dell’osteria, per interessarsi alle conversazioni che si svolgevano tra i convitati. Ermete prosegui: “La nazione per cui abbiamo combattuto, per la quale tanti dei nostri han dato generosamente la vita, è in mano a persone di malaffare che anelano solo a possederla, violarla, goderla. Hanno ridotto il Parlamento a un bivacco di impresari meschini, nei quali il clero sempre s’insinua per rivendicare il suo campo d’influenza. Non siamo stati capaci di fermarli quando era il momento, col tempo noi stessi abbiamo ceduto alla vanità del potere”. Aveva gli occhi rossi e le labbra strette.

Una voce si levò in risposta: “Ermete è pieno di rancore verso di noi, molto gravi sono le sue accuse. Perché mai se la prende tanto? Il suo popolo rimproveri piuttosto, la sua indolenza. Quand’era il tempo delle scelte irrevocabili abbiamo sentito ripetere sempre che la rivolta doveva attendere, che la pazienza è la virtù dei forti; con queste parole si rimandarono sempre quelle azioni senza dubbio crudeli, ma necessarie perché fosse stabilito allora l’ordine e la giustizia. Da quanto tempo il popolo italiano inganna se stesso! Tutti buoni a parlare ma poi, quand’è il momento, vanno loro stessi a mendicare una protezione, una grazia, un privilegio, un lavoro. Questo il popolo con cui Ermete dovrebbe lamentarsi, a meno che non voglia radunare egli stesso una brigata di avventurieri e guidarla nell’insurrezione!”. A queste parole seguirono un brusìo sommesso e qualche beffardo sorriso.

“Alla mia età, rivoltarmi contro la patria per cui ho combattuto?” Ribatté il Musolesi. “Non riporterebbe in vita i compagni caduti, né il mio Spartaco fra le braccia della madre. Sono troppo vecchio per gli assalti alla baionetta, ai giovani ora il compito di battersi per il loro futuro. No, non commetterò un errore tanto inutile. Ii parassiti della società riflettano piuttosto sulla caducità del potere. La storia invocherà per gli sfruttatori il castigo che meritano”.

“Sei solo un vecchio pazzo” rispose Oreste, delle cui bravate da attentatore all’arma bianca non restavano che imbarazzanti ricordi. “Vai a fare la predica agli uccelli come San Francesco, forse loro ti ascolteranno! Legioni di colombe si aggirano per l’Europa, mi sembra di vederle coi ramoscelli di ulivo in bocca, massacrate dai gabbiani, dalle cornacchie, dai grifoni. Li conosco bene gli oratori melliflui come te, non m’incantano. Vorrei del resto far notare che non è prudente sputare nel piatto dove si è soliti mangiare, se proprio vuoi parlare d’insurrezione non è qui che troverai ascolto: alla lega dei lavoratori dovresti rivolgerti presentando le tue istanze di sedizione e rivolta. Non illuderti che possano intimidirci queste crociate dei pezzenti di cui vai delirando. Dovresti saperlo ormai, abbiamo dalla nostra la stampa, l’esercito, persino le orecchie del prete nel confessionale. Anche il mercato e l’osteria, se proprio vuoi saperlo: non sarà dimenticata questa riunione!”.

Ermete allora proruppe in un pianto e disse: “Ora basta, non sono venuto qui a invocare le Erinni vendicatrici o pronunciare maledizioni, ma a chiedervi una dispensa. Il futuro del paese non sarò io a cambiarlo, una carneficina si abbatterà sulla terra che abbiamo tradito e forse non saremo qui per vederne le conseguenze. Solo una cosa vengo a domandarvi, una carta d’imbarco. Proprio così, ho bisogno di una nave. Credo che mio figlio Spartaco sia ancora vivo da qualche parte, temo possa aver bisogno del suo vecchio padre e non mi rassegno a morire qui senza aver nemmeno provato a cercarlo. Desidero imbarcarmi per l’Eritrea. Abbiamo un porto a Massawa dove la comunità italiana è molto attiva, da lì ho intenzione d’entrare in Etiopia e cercare mio figlio fino all’ultimo giorno se necessario, non tornerò indietro senza di lui”. A queste parole tacquero i convitati per qualche secondo, senza riuscire a staccare gli occhi dalla bocca di quell’uomo.

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