La ricezione dei sonetti del Belli

Sulla ricezione dei sonetti romaneschi nei carteggi di Giuseppe Gioachino Belli

Davide Pettinicchio
Intorno alla ricezione dei sonetti romaneschi
nei carteggi di Giuseppe Gioachino Belli

in: ‘Studi (e testi) italiani’

Semestrale del Dipartimento di Studi
Greco-Latino, Italiani, Scenico-Musicali, N.40 (2017)

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L’opera abiurata dal suo autore

Davide Pettinicchio in queste note intorno alla ricezione dei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli nei suoi carteggi, constata innanzi tutto l’appartenenza di quel repertorio letterario a un ambiente tutt’altro che popolare, presenta un carattere apertamente conviviale ma legato alla vita del poeta nella società del suo tempo. Si inserisce nel filone letterario delle poesie d’occasione, ma pur avendo un piede nella tradizione, si rivolgono a un ambiente esclusivo di intellettuali ed eruditi borghesi. Un pranzo di società, un matrimonio, un salotto letterario, spesso questi sonetti passavano attraverso il carteggio privato con lo stimabile architetto, l’orologiaio, il librettista, il funzionario pontificio, la marchesa, la principesa, personaggi della buona società non sempre e non solo romana, spesso uniti dalla comune passione per la poesia vernacolare. Non erano destinati alla pubblicazione, l’autore stesso pregava i destinatari affinché evitassero nel modo più assoluto di farne divulgazione con terzi, anche per via del linguaggio e le ‘dizioni indecenti’ di cui tali scritti riboccavano: questo aspetto li rendeva controversi in parte per la società del suo tempo, in cui la censura faceva il bello e il cattivo tempo, in parte per il pudore dello stesso Belli che (censore a sua volta), temeva di essere scambiato per un carbonaio. Cioè, per uno del popolo. E’ un paradosso questo suo conflitto interno, il voler redigere un affresco letterario della lingua del popolo, ma il timore che questo affresco venga scambiato realmente per letteratura popolare. Li contava man mano che andava componendoli, incerto se pubblicarli o darli alle fiamme.

«Ed i miei quadretti del costume romanesco arrivano già a 230. Dopo il mezzo migliaio o li
vedrà la luce del giorno o quella della fornace»

G. Belli, cit. in Davide Pettinicchio, op.cit.

L’argomento politico e la censura

Ad aggravare i suoi timori, è l’argomento politico di una parte del repertorio, nel quale si prendeva gioco del potere e che avrebbe potuto creargli dei problemi con la giustizia. “Ma sapete come finisce? Uno stampatore ci fa guadagno, ed io ci vado in galera”. A questo proposito, Davide Pettinicchio pone l’accento sulla duplice natura di un repertorio pubblico, esposto negli intrattenimenti privati e più avanti anche in teatro, apparentemente disimpegnato, innocuo, e un repertorio privato, nel quale si prende licenze di linguaggio, di forma e di contenuto. Questa parte riflette un periodo nel quale il Belli ebbe relazioni con repubblicani, patrioti e intellettuali che lo inscrivono nella linea lombarda del Parini/Porta, caratterizzata da una sensibilità morale e civile contro il fanatismo e i pregiudizi dell’assolutismo monarchico. Una riflessione anche politica da non scambiarsi tuttavia per una vera e propria militanza. Nel 1836 Belli pubblica una miscellanea di cui fanno parte anche alcuni sonetti in vernacolo romanesco, un’operetta in cui sembra avvicinarsi al clima risorgimentale di una poesia civile e impegnata, ma più che altro per quanto riguarda la poesia nella lingua nazionale.

Dall’emulazione agli apocrifi

Davide Pettinicchio non esclude che la scelta di mantenere in clandestinità la parte più scabrosa del repertorio, evitando di insistere troppo sulla rilevanza letteraria dell’opera stessa “Sminuendone la costituzionale e destabilizzante ambiguità” possa attribuirsi anche a una volontà di proteggere il ‘Commedione ‘ dal rischio di un’attenzione potenzialmente pericolosa da arte degli organi polizieschi. In realtà il Belli non prese mai una posizione apertamente militante, come altri autori del suo tempo han fatto in modo meno ambiguo. Tuttavia a prescindere dalle intenzioni dell’autore, fin dagli anni ’30 dell’Ottocento vi furono appropriazioni di parte del repertorio di Giuseppe Gioachino Belli da parte della ‘Musa popolare’, per cui alcuni di quei componimenti vennero a diffondersi clandestinamente malgrado l’autocensura dell’autore stesso. Circolarono manoscritti, stampe autorizzate, la sua opera iniziò a circolare oralmente, volgarizzata in componimenti apocrifi che sfuggivano al suo controllo. VI fu un processo di emulazione e in parte deterioramento testuale. Persino Giuseppe Mazzini citò uno di quei sonetti in una lettera a un suo sodale, ignorandone l’autore. In sostanza, il paradosso del Belli è proprio in questa duplice natura e soprattutto nell’appropriazione pubblica di quel linguaggio, di quei versi, al limite dell’espropriazione. L’autore non fu mai un rivoluzionario, ma un borghese che scriveva per i borghesi: fu l’interpretazione data a quel materiale a trasformare l’architetto di un monumento al popolo in ‘poeta del popolo’.


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